Il paese e il territorio dal trecento all'ottocento

Sarroch era una piccola "villa" compresa nella curatoria di Nora, della quale facevano parte anche le "ville" di Santa Maria Maddalena, Caput Terrae, Perda Sterna, Sennoras, Cucho, Garabionis, San Pietro, Pedra de Sai, Saiioni, S. Evis de Nura, Padulis, Orto Giacobbe, Torralba, Vestaris, Villanova, Quia.

di Luana Giannotti - Tratto da "Sarroch - storia, archeologia e arte", Comune di Sarroch, a cura di Roberto Coroneo.

IL FENOMENO DELLE SUCCESSIONI FEUDALI: DAI DELLA GHERARDESCA AI ZAPATA 
Tra i primi episodi che diedero significativo impulso alla storia di Sarroch, si ha memoria dell'incontro tra il paese e i "Signori del Campidano di Cagliari". Durante il periodo giudicale, Sarroch era una piccola "villa" compresa nella curatoria di Nora, della quale facevano parte anche le "ville" di Santa Maria Maddalena, Caput Terrae, Perda Sterna, Sennoras, Cucho, Garabionis, San Pietro, Pedra de Sai, Saiioni, S. Evis de Nura, Padulis, Orto Giacobbe, Torralba, Vestaris, Villanova, Quia. Ma le carte d'archivio raccontano che già nel 1258, con la capitolazione di Santa Igia avvenuta il 20 di luglio e la conseguente dissoluzione del regno giudicale di Cagliari, il villaggio divenne possedimento di una delle più note e potenti famiglie toscane del tempo: i Della Gherardesca. Invero, l'emblematica vittoria riportata da Pisa sui genovesi si realizzò proprio grazie al ragguardevole supporto offerto da diverse famiglie in posizione eminente (Capraia, Visconti, Della Gherardesca conti di Donoratico, Malaspina, ecc.) che condividevano, nei confronti dell'isola, gli stessi interessi politici e commerciali dei due comuni in contesa. Fu Gherardo Della Gherardesca nel 1257 a sposare l'impresa che produsse lo smembramento del giudicato di Cagliari, cui seguì l'assegnazione dei territori divisi. Ai Della Gherardesca, congiuntamente alla curatoria di Nuraminis, Decimomannu e ad una larga fetta del Campidano di Cagliari, spettò anche la curatoria di Nora, ivi compreso il piccolo abitato di Sarroch. Venticinque anni appresso, nel 1282, Ranieri, secondogenito di Gherardo, ricevette dal fratello Bonifacio il feudo che all'epoca risultò incluso nella sesta parte del giudicato di Cagliari. La bolla papale Super reges et regna, promulgata da Bonifacio Vili nel 1297, infeudò il Regno di Sardegna e Corsica a Giacomo II d'Aragona, e tra il 1323 e il 1326 l'espugnazione di Cagliari sancì la nascita del regno catalano-aragonese di Sardegna. Precisamente nel 1324, stesso anno in cui l'infante Alfonso primogenito del re d'Aragona concesse in feudo al nobile Giacomo Villana la "villa" di Capoterra, Sarroch venne a far parte del regno catalanoaragonese di Sardegna e fu concesso in feudo more Italiae agli stessi Gherardesca in remunerazione della loro fedeltà verso la corona. John Day sostiene che verso il 1300 Sarroch contasse già il numero rilevante di 62 fuochi e che tra la fine del XIV secolo e il 1532 il villaggio venisse completamente distrutto dai barbareschi. La difficile esperienza di popolamento, avviata fra gli ultimi decenni del XIII secolo e i primi del XIV, non riuscì a decollare. Ostacolata in parte da profondi e repentini mutamenti di carattere socioeconomico introdotti dal sistema feudale, fu congelata dalla terribile carestia del 1340 e dalla prima comparsa della peste nera del '48 che, pur causando al villaggio un fortissimo calo demografico, non riuscì a spopolarlo così come accadde per molti altri dell'isola. Il tardivo processo di costituzione di una comunità di villaggio con identità politica propria (realizzatasi concretamente solo nella seconda metà del XVII secolo) fu contrastato da una molteplicità di fattori. Il continuativo deficit di risorse umane ed alimentari e le energie animali sottratte alla collettività ancora in fase embrionale non permisero di realizzare una proficua presa sul territorio. Si può ipotizzare che in quel periodo Sarroch, caratterizzata da una fortissima frammentazione fondiaria, fosse costituita da sparuti nuclei di habitationes disgiunti da distanze più o meno brevi. I primi insediatori, in lotta permanente con l'aggressività di una natura più matrigna che genitrice, tentarono di ostacolarne il prepotente avanzamento che minacciava i pochi territori ospitali. Per la maggior parte dei fuochi che si andavano formando, il fine ultimo fu quello di ricreare dei contesti abitativi di modeste dimensioni, più vivibili rispetto agli originari e governabili in maniera autosufficiente, tali da permettere la sopravvivenza, seppur in alcuni casi poco dignitosa. Ogni singola unità domestica era obbligata a specifiche prestazioni verso il Comune pisano. Il regime fiscale contava i suoi tributi più onerosi nel datium e nel laore o pegus. Il datium equivaleva ad una sorta di gabella "sulla ricchezza patrimoniale", prevedeva il versamento di un canone monetario ripartito tra i fuochi, variabile a seconda delle facoltà della casa, ovverosia delle forze e dei beni dell'unità fuocatica. Il laore o pegus veniva corrisposto in natura (il laore in cereali, il pegus in bestie vive) commisuratamente alla capacità produttiva delle imprese dei vari fuochi; per questo è stato assimilato ad una tassa "sul reddito d'attività". L'unità di misura della produttività delle piccole aziende era il giogo per quelle agricole (capacità d'aratro di un coltivatore che opera con la forza di due animali da lavoro) e il segno per quelle pastorali (mandria o gregge, i cui singoli capi sono contrassegnati da uno stesso marchio). Nel panorama agricolo sarrochese, come in quello della vita rurale di tutta l'isola, non solo operavano fuochi di coltivatori dotati del tiro d'aratro, bensì i cosiddetti zappatori che combattevano le insidie del terreno con la sola forza delle proprie braccia. Queste imposizioni fiscali erano soggette a rilevanti variazioni, non solo tra una curatoria e un'altra, bensì, all'interno di una stessa curatoria, tra un villaggio e un altro, creando disparità incomprensibili, ma dalle tangibili conseguenze. Il caso di Sarroch è stato evidenziato con assoluta trasparenza da Gian Giacomo Ortu, in Villaggio e poteri signorili in Sardegna. Lamentando una notevole difficoltà di interpretazione dei dati riportati sui protocolli fiscali dei pisani, egli sottolinea come risulti «del tutto incomprensibile la ragione per cui alcuni villaggi dell'estremo versante occidentale dell'isola, ad esempio Sarroch, verserebbero una percentuale del raccolto attorno al 40-50 per cento, posto che nessuna azienda contadina può prevedere una produzione annua media complessiva dei due cereali, superiore ai 60- 75 starnili (il 5 per 1 su 12-15 st. seminati)». 
Alla luce delle considerazioni dell'Ortu, ci si pone il suo medesimo interrogativo: se «ci sono le sementi da tenere a riserva, ci sono i decimatori pronti sull'aia, occorre vendere per pagare il datium, c'è qualche altra spesa (custodia delle messi, mietitura e trebbiatura, molitura, ecc.), alla fine di che vive il contadino con la sua famiglia?». L'eloquenza dei dati sottende un quadro inquietante sulle probabili condizioni di vita del villaggio, alla mercé delle soperchierie degli amministratori e piegato dalle inesorabili leggi della natura. Questa via crucis si protrarrà per secoli, perpetuando miseria materiale e modelli di comportamento improntati nel bene e nel male alla sopravvivenza giornaliera. La discendenza della famiglia pisana concluse il proprio dominio sul villaggio alla morte dell'ultimo feudatario, Gherardo il giovane, figlio di Ranieri, avvenuta nel 1355. Fu così che il 27 di maggio del medesimo anno Pietro IV d'Aragona il Cerimonioso, come attesta la trascrizione ottocentesca della carta reale diretta a Guglielmo Rebalta, suo portiere e speciale commissario, concesse a Francesco Roig le ville di San Rocco, Pedra de Salo, Cabron, Cucco, e S.ta Maria Maddalena. Il feudo fu assegnato per il censo annuo di 10 fiorini e «i vassalli pagavano il feudo in danaro, grano e orzo e un tributo sul vino venduto in danaro». Nel settembre 1353, a causa di una convivenza territoriale oramai non più sostenibile, l'apertura delle ostilità fra Mariano IV d'Arborea e la Corona d'Aragona determinò una svolta decisiva nel lento e travagliato processo di popolamento dell'antica curatoria. Laddove la peste del '48 non riuscì a rendere desertico e spopolato il territorio del feudo, furono le atrocità della guerra a seminare miseria, terrore e la fuga verso zone limitrofe più accessibili. Il territorio, devastato e abbandonato, fu occupato dalle truppe giudicali fino al 1388. In Sardegna il fenomeno dello spopolamento fu tutt'altro che marginale; tra il 1324 e il 1485 gli abbandoni riguardarono il 59,7% dei centri di area agricola, il 60,1 dei villaggi agro-pastorali dell'interno e della costa, e soltanto il 19,2 dei villaggi di area a dominante pastorale. Dopo il 30 giugno del 1409, giorno in cui la battaglia di Sanluri decise le sorti della supremazia all'interno dell'isola, l'antica curatoria di Nora tornò in possesso del re d'Aragona. Intanto, Sarroch, priva di barriere difensive sia naturali sia edificate dall'uomo, fu oggetto delle incursioni barbaresche dei pirati africani, che con estrema facilità trovarono nelle sue coste un rifugio strategico e sicuro. Successivamente, il territorio del feudo tornò in possesso della famiglia catalana dei Roig. Simone Roig, anch'egli come il padre personaggio in vista della Cagliari del tempo, alla sua morte lasciò eredi del feudo le sue due uniche figlie. Essere privi di discendenti maschi rappresentava un serio rischio per l'entourage familiare del feudatario. Una volta dichiarata estinta dal procuratore testamentario la linea di successione maschile, nonostante intricate clausole successorie tentassero di salvaguardare il possesso del feudo, solo fortuitamente si riusciva ad evitare l'onerosa prassi che era solito attivare il Regio Fisco, dichiarando la devoluzione ed ordinando il sequestro del feudo. Questo fu il caso delle eredi Roig. Il 5 luglio del 1493, con diploma di donazione del re Ferdinando II il Cattolico, il feudo sottratto alle sorelle Roig, comprensivo delle ville di San Rocco, S.ta Maria Maddalena, Cuquo, Capriol, venne concesso a Salvatore De Sana. A cavallo fra il XV e XVI secolo, un intersecarsi di accadimenti segnò il comune destino delle ville di Sarroch e Capoterra. Entrambe vennero asservite al medesimo feudatario fino all'abolizione della giurisdizione feudale avvenuta nel 1836 con Regio Editto di Carlo Alberto di Savoia Carignano. Nel 1494, infatti, Michele Sayol, in qualità di marito di Eleonora Castañas (Castangia), erede di Antonio, ex feudatario di Capoterra, vendette la villa al fisico e medico Ausia Torrellas dietro pagamento di 2.200 lire sarde, alle quali andarono ad aggiungersi altre 400 lire per il diritto di riscatto (cessione della facoltà di recedere dalla vendita). Trascorsi pochi anni (certamente dopo il 1501), le eredi di Simone Roig, precedentemente riappropriatesi del feudo, lo vendettero allo stesso Ausia Torrellas che lo unì al possedimento di Capoterra. La famiglia Torrellas continuò ad esercitare il proprio dominio con Nicolao (dal 1504, membro dello stamento militare), figlio di Ausia, che il 13 maggio 1520 ricevette l'investitura da Carlo V della Corona di Spagna e dalla regina Giovanna, madre di quest'ultimo, divenendo signore delle ville spopolate di Caputerra, San Rocco, la Maddalena, e altre ivi connesse. «La concessione prevedeva l'esercizio del mero e misto imperio e di tutti i diritti reali; per i vassalli il pagamento del feudo in danaro, grano ed orzo, del diritto di Gallina, del Laor de corte, della decima delle mucche, delle capre, dei maiali e delle pecore in natura». Le carte reali che decretarono le varie investiture parleranno senza soluzione di continuità di «ville spopolate» dal 1520 fino al 1642. Successivamente, con obbligo di prestazione e del solito giuramento di fedeltà alla Corona d'Aragona, fu Melchiorre Torrellas, figlio di Nicolao, ad ottenere l'investitura da Carlo V il 7 aprile 1547. A seguire, il 9 dicembre 1557, il magistrato Francesco Torrellas, figlio primogenito del nobile Melchiorre, entrò in possesso delle ville spopolate di San Rocco, Caputerra e la Maddalena. Nella storia della famiglia Torrellas, i nomi di Melchiorre e Francesco si alternarono tra gli eredi per ben quattro generazioni. Così, nella conduzione del feudo, si sostituì a Francesco il figlio maggiore Melchiorre, il quale ricevette l'investitura il 3 giugno del 1589. Nel 1623, il testamento di Melchiorre Torrellas designò come unico erede della baronia di Capoterra e San Rocco il figlio primogenito Francesco, che morì senza lasciare eredi nel 1641. Già Melchiorre, anni prima della morte, a maggior tutela dei beni propri e della famiglia, istituì un fedecommesso per i maschi, con diritto di sostituzione. Agendo in tal senso, alla prematura morte di Francesco, il fratello Gerolamo, terzogenito di Melchiorre, nel luglio del 1642 riuscì a conseguire l'investitura reale da Filippo IV. Gerolamo fu l'instancabile fautore del ripopolamento della villa di Sarroch e di tutta la baronia, incoraggiando alacremente l'insediamento di una comunità di pastori e contadini provenienti dal Gerrei. Tuttavia la seconda metà del 1600 si apre con un'epidemia di peste lunga quattro anni (1652-56) seguita da una terribile carestia nel biennio 1680-81. Come si verificava con frequenza, uno dei maggiori flagelli dell'economia sarda si associò alla carestia e alla pestilenza: nembi di cavallette, giunte in formazione dall'Africa, misero in ginocchio l'agricoltura e la pastorizia. La rifondazione della villa ebbe luogo tra mille avversità lungo un arco di tempo che va dal 1660 circa ai primi anni del 1700. Nel 1659, mediante una donazione inter vivos, Gerolamo cedette il feudo al figlio Fulgenzio, il quale morì prima del padre nel 1664, lasciando come unica erede la figlia Fulgenzia Torrellas Aymerich. Gerolamo, in qualità di tutore e curatore della piccola nipote, rientrò in possesso di Sarroch e Capoterra sino al 1666, anno della sua morte. Da questo momento in poi, un avvicendarsi di rivendicazioni portò alcuni componenti della famiglia a scontrarsi innanzi alla Reale Udienza per ottenere il possesso del feudo. La baronia fu rivendicata da Agostino Elìsio Spiga, anch'egli figlio di Girolamo Torrellas, che per sua scelta non si avvalse mai del patronimico, ma fece uso esclusivo del cognome materno. Tra Agostino Spiga e la nipote Maria Fulgenzia, rappresentata dal nobile Agostino Machin, in qualità di suo tutore e curatore, nacque una lunga e gravosa lite che si trascinò per ben 14 anni. La sentenza proferita il 15 maggio del 1678 dal supremo magistrato della Reale Udienza di Cagliari volse a favore dello Spiga. Questi, sposatosi con Agostina Conti, divenne padre di tre figlie: Maria Caterina (coniugata con Franco Zapata, barone di Las Plassas e, rimasta vedova di questo, con Francesco Vico, marchese di Soleminis), Antioca e Antonia. Alla sua morte, avvenuta nel 1710, l'assenza di discendenti maschi cagionò la perdita del feudo, che passò direttamente all'altro ramo della famiglia, quello di Fulgenzia Torrellas Aymerich. La lite tra Maria Fulgenzia e Maria Caterina riprese subitamente, ma in breve tempo la seconda fu esclusa dalla successione. Intanto Maria Fulgenzia, sposatasi con Giuseppe Otger (consigliere capo di Cagliari nel 1691,1701 e nel 1705), feudatario di Tuili, lasciò il feudo a suo figlio Francesco. Francesco Maria Otger Torrellas ottenne l'investitura della baronia di Sarroch e Capoterra, con atto del 14 settembre 1690, ma potè portare il titolo di barone solo per un tempo brevissimo. L'erede morì prematuramente senza discendenti; così, nel 1710, la successione delle ville di Sarroch e Capoterra si aprì a favore di Maria Caterina. Si oppose a lei Nicolò Machin Torrellas, pretendente la successione come nipote della nobile Vincenza Torrellas. Tra i litiganti, prevalse lo strapotere del Regio Fisco che il 19 luglio del 1710 dichiarò i feudi devoluti e ne ordinò il sequestro. Solo alla fine dello stesso anno, il 24 di novembre, gli atti del Tribunale del Regio Patrimonio deliberarono a favore della nobile Maria Caterina Torrellas la successione delle ville, beni e redditi componenti la baronia di Capoterra e Sarroch, in assoluta conformità del vincolo fedecommesso istituito da Melchiorre, suo bisavo. Tra il 12 e il 13 aprile del 1730, in seguito ad una donazione inter vivos (dell'll aprile) fattagli dalla madre Maria Caterina, Giuseppe Vico Torrellas Dedoni e Zatrillas, signore della villa di Gesturi, entrò in possesso della Baronia di Caputerra e S.t Rocco, ville, salti, beni e redditi annessi a questa. La donazione prevedeva l'esercizio del mero e misto imperio. Con sentenza dell'intendente Generale, conte Fornaca di Sessant, emanata il 12 luglio 1731 venne elargita l'investitura a Giuseppe Vico. Il cartaceo che ne dichiarò l'esecutività giudiziaria porta la data del 6 ottobre 1731. L'anno successivo, il 21 di gennaio, gli fu affidata la baronia di S.n Roque, La Maddalena, Cuco, Petra Sai e Cabriol. Giuseppe Vico sposò Angela Pilo Cervellon, marchesa di Las Conquistas, ma non ebbe discendenti. Morì lasciando i due feudi a suo nipote Francesco, con il quale la famiglia si estinse nel 1801. «Così, il 29 marzo 1759 i suoi beni furono acquistati dal cugino Francesco Bernardo Spiga, Torrellas, Zapata, Sanjust, Ponti, Zatrillas, Dedoni, che potè allungare la sfilza di titoli nobiliari del suo casato con quelli ricevuti: marchese di Soleminis, barone di Caputerra e San Rocco, La Maddalena, Villa di S.t Efisio e San Nicolao, signore di Gesturi, e successore del marchesato di Sietefuentes». Francesco Bernardo Spiga Vico morì nel 1762, lasciando in possesso della baronia la consorte Maria Angela Amat, tutrice delle sue due uniche eredi; Maria Rita e Maria Luigia. L'ultima baronessa del feudo fu proprio Maria Rita Zatrillas Vico che, chiamata in causa per inadempienza dal Consiglio Comunitativo di Capoterra, cedette l'amministrazione del feudo al nipote Efisio (figlio della sorella Maria Luigia, sposata Zapata) il quale compare nei documenti come signore delle ville di Capoterra e Sarroch sin dal 1820. In questa occasione, Efisio Zapata già marchese di Barumini, Villanovafranca e signore di Las Plassas, diede origine alla baronia denominata di Las Plassas e Capoterra. Lorenzo Zapata, figlio di Efisio e di Francesca Vivaldi Chiabò, fu colui che concluse definitivamente l'interminabile processione di feudatari che nel corso di sei secoli si avvicendarono nella conduzione della baronia. Si ritiene che l'acquisizione del feudo giovò al ripristino di una situazione economica fortemente compromessa dai numerosi debiti contratti dalla famiglia, che, fra i vari beni, dovette ipotecare il palazzo del teatro ubicato nel quartiere di Castello a Cagliari Oramai l'istituzione feudale, che soprattutto in Sardegna ebbe vita troppo lunga, stava volgendo alla conclusione. Il 21 maggio 1836 il Reale Editto prescrivente la soppressione della giurisdizione feudale proclamava lo sradicamento non più procrastinabile di antichi privilegi, vergognosi soprusi, leggi e consuetudini irrispettose della dignità umana. Il riscatto del feudo si concretizzò dopo lunghe pratiche burocratiche che impegnarono allo stesso modo il feudatario e gli abitanti dei territori da affrancarsi. Nel 1837 fu istituita una commissione, detta Regia Delegazione (sopra i feudi), deputata alla disamina della documentazione attraverso cui il barone avrebbe dovuto elencare nel dettaglio tutti i propri beni e redditi. Questo materiale doveva essere obbligatoriamente inviato ai consigli comunitativi per averne un puntuale riscontro. Le contestazioni e le critiche non mancarono soprattutto a causa del fatto che la Regia delegazione dovette fornire indicazioni precise sulla prestazione annua corrispondente al reddito di don Zapata, nella propria baronia. Superate non poche incomprensioni, il 14 settembre 1839, a Torino davanti al Supremo Reai Consiglio, venne stipulata la convenzione per il riscatto del feudo tra il Regio Fisco Generale e don Lorenzo Zapata, assistito dall'avv. Francesco Boetti e, per la sua minore età, dalla madre e curatrice donna Francesca Zapata Vivaldi. La stipulazione, approvata dalle Regie Patenti in data 21 novembre 1838, rese manifesto che «con istromento di transazione del giorno d'oggi, abbiano avuto termine li giudizi di ricorso delle sentenze delli diciotto, diciannove e venti settembre 1838 proferta dalla Regia Delegazione sopra i feudi creata col Regio Edito trenta Giugno 1837 nelle cause per l'accertamento dei redditi feudali dei villaggi di Villanova Franca, Las-Plassas, Barumini, Capoterra e Sarroch tra l'illustrissimo Signor Barone Don Lorenzo Zapata ed i comuni dei sunnominati villaggi, che compongono i tre primi la Baronia di Las Plassas, i due ultimi quella di Capoterra». Le Regie Patenti erano comprensive degli accordi presi in ultima istanza sulle entrate provenienti sia dal villaggio di Sarroch sia da quello di Capoterra. La concessione fu effettuata mediante compenso da liquidare di lire sarde 97.086, 11 soldi, 8 danari, corrispondenti a lire nuove del Piemonte 186.406 e 31 centesimi. L'articolo numero 1 del brevetto con il quale Carlo Alberto, il 9 maggio del 1840, riscattò la baronia di Capoterra e Sarroch, decretò che «L'annuo ammontare in danaro da corrispondere alla Regia Cassa di Sardegna a cominciare dal l.mo Gennaio corrente anno 1840 in avvenire dai cinque comuni già rispettivamente dipendenti dalle antiche Baronie di Las Plassas e Capoterra tanto a titolo di contributo redimibile, quanto a titolo di contributo non redimibile in surrogazione delle soppresse moltiforni prestazioni feudali, e giudiziarie è, e rimane stabilito nella complessiva somma di Lire sarde Cinque mille ottocento sessantadue, divisa nel modo risultante dal seguente elenco. Tale somma verrà iscritta nel bilancio generale dell'isola alla parte attiva, Dipartimento Finanze, nel quale dovranno pur figurare i redditi presuntivi dei beni demaniali».
Sarroch fu seconda soltanto a Las Plassas per l'ammontare dei contributi versati nella Regia Cassa. Per il Comune di Sarroch la quota stabilita ascese a 1.149 lire (1.150 lire come contributo redimibile e 341 lire come non redimibile). Nella baronia di Capoterra rimasero riservate al barone, benché site nei territori dei feudi, le tanche denominate Sa Turri e Tanca Noa, dalle quali egli continuò a ricavare degli utili. Con l'abolizione del sistema feudale, e prima ancora con il nuovo ordinamento terriero dettato dalle Chiudende, si palesarono nuove problematiche e si aggravarono vecchie incertezze che richiesero enormi sforzi alla nuova amministrazione.

DALLA RIFONDAZIONE ALL'ABOLIZIONE DEL REGIME FEUDALE
 Il quadro storico fin qui delineato copre un arco temporale di circa sei secoli e difetta di alcuni tasselli indispensabili per la ricostruzione della storia del paese. Uno dei passaggi determinanti, da rivisitare alla luce di nuove testimonianze, concerne gli anni della rifondazione, compresi tra il 1660 circa e la fine del secolo. L'ipotesi più remota, elaborata dal Fara, racconta che intorno al 1580 Sarroch, da tempo spopolata, viveva come altri insediamenti costieri sotto la costante minaccia delle incursioni barbaresche, che con regolarità comportavano saccheggi e rapimenti di massa. I nuovi arrivati sul posto, avendo ottenuto una strepitosa vittoria sui saraceni per intercessione di San Giorgio di Suelli, gli edificarono una piccola chiesa e, attorno ad essa, incominciarono a costruire le loro modeste abitazioni. Il villaggio prese il nome del santo, ma era meglio conosciuto come Barraccas de susu ("Baracche di sopra") in contrapposizione a quello sorto a distanza di breve tempo, denominato di Santa Vittoria e noto come Barraccas de baxiu ("Baracche di sotto"). Tra l'edificazione della struttura religiosa in onore di San Giorgio di Suelli e la presunta migrazione verso Sarroch di una colonia di pastori e agricoltori del Gerrei, potrebbe sussistere una suggestiva connessione. Nel novembre del 1605 il canonico Giovanni Michele Lotxi, fiscale della curia arcivescovile di Cagliari, compilava e inviava all'arcivescovo di Cagliari Francisco De Esquivel un questionario di 14 articoli, con l'esplicito proposito di raccogliere la documentazione relativa a San Giorgio di Suelli, conservata nell'archivio arcivescovile della città. In un secondo momento le indagini si estesero anche all'Ogliastra, antica diocesi di Suelli, e lo stesso De Esquivel, nel maggio del 1606, incaricò il dottor Valerio Casula di costituire una commissione d'inchiesta atta a raccogliere tutte le informazioni possibili sui fatti prodigiosi operati da San Giorgio e sulle chiese a lui dedicate in tutto il territorio dell'isola. È certo che la commissione arcivescovile non fece alcun cenno alla chiesa edificata a Sarroch e ciò fa presumere che la sua costruzione sia posteriore alla prima decade del 1600. Il culto di San Giorgio vescovo rimase circoscritto all'isola e radicato principalmente nella parte meridionale, mentre al nord predominava la devozione verso San Giorgio Megalomartire. Col tempo, causa l'omonimia e l'ignoranza dei fedeli, nell'immaginario collettivo le due figure vennero a confondersi e le gesta di entrambi in alcuni casi a sovrapporsi. Ancora oggi esistono in Sardegna oltre quaranta chiese dedicate al santo, ma solo alcune di queste furono in origine intitolate al primo vescovo della Barbagia orientale (San Giorgio di Suelli). La piccola chiesa di Sarroch fu con certezza una di queste. Proprio il XVII secolo si fa portatore del risveglio della devozione al santo che, con la soppressione della diocesi di Suelli nel 1423, era andata affievolendosi. Ma nella Trexenta e nel Gerrei il culto fu sempre vivo e «ancora oggi esistono sia la fonte che la strada in mezzo ai monti chiamate entrambe di San Giorgio; e il campo dove fu ucciso il drago detto 'campo del sangue', in una località tra Silius, San Nicolò Gerrei e Sant'Andrea Frius, dove l'erba, quasi a ricordare il miracolo del Santo, vi cresce rossiccia». La supposta trasmigrazione di popolatori del Gerrei (profondamente devoti al santo), lanciatisi in un'iniziativa rischiosa e impegnativa, accende di significato la costruzione di un santuario in onore del vescovo. Storia e credenze popolari si fondono inducendo a scartare l'ipotesi di una mera coincidenza, che concederebbe troppo al caso. Questo fervore religioso, cuore del villaggio, che da principio riuscì a fungere da elemento di coesione della comunità, in poco tempo sfumò e cedette al soddisfacimento di nuove esigenze dettate dalla crescita demografica e dai limites eccessivamente costrittivi per una popolazione in esubero. Così, il rintocco delle campane di San Giorgio non fu più il solo a scandire la quotidianità del villaggio. La ricerca di suoli più fecondi, una migliore esposizione, l'avvicinamento a fonti d'acqua dolce o al mare, o semplicemente la necessità di guadagnarsi migliori condizioni di vita e di convivenza, portavano gli abitanti a continui spostamenti che si concretizzarono nella formazione di un nuovo nucleo gemello. Si verificò quel fenomeno noto come gemmazione attraverso cui, nella fattispecie, il villaggio de susu (San Giorgio) assistette allo scollamento ed al relativo allontanamento di un consistente insieme di gruppi familiari che, nella zona a questo sottostante, diede vita al villaggio de baxiu (Santa Vittoria). Bisogna però insistere su questo punto: i due nuclei gemelli non ricusarono mai il loro legame di filiazione, ma armonizzarono la loro quotidianità, le loro esperienze di crescita e di profonda crisi nella cronaca di un solo villaggio: Sarroch. Il nuovo cammino ebbe inizio sotto la gestione di Gerolamo Torrellas e proseguì in prospettiva di uno sviluppo celere e durevole. Tuttavia Sarroch fu per l'ennesima volta sopraffatto dalla gravosa morsa fiscale deir amministrazione feudale. Per comprendere a fondo i danni materiali e psicologici inflitti agli abitanti, occorre soppesare il rapporto che sussisteva tra il feudatario ed i sarrochesi. Si è già vagamente accennato alle prestazioni cui dovevano soggiacere gli abitanti del feudo legati al signore dal vincolo servile-vassallatico. I vassalli erano obbligati a pagare dei tributi chiamati "personali", in relazione al potere giurisdizionale che il feudatario esercitava sulla loro persona, e quelli "reali" poiché il potere si estendeva anche ai beni in loro possesso. Il Barone esercitava anche numerosi diritti "misti" e "giurisdizionali" che contribuivano ad incrementare la rendita feudale. Dacché Capoterra e Sarroch fecero parte del medesimo feudo, i sarrochesi non furono mai vincolati da una condizione di vassallaggio. Questo, a differenza di ciò che si può credere, andò esclusivamente a loro detrimento. Nei fascicoli relativi al Villaggio di San Rocco, custoditi nell'ASC, si legge che «essendo gli abitatori di Sn Rocco, Popolatori, ma non vassalli appartiene il vero dominio dei terreni al Barone, e tanto è vero, che venendo alcuno a morire senza parenti, i terreni che questi avrebbero acquistato per pura concessione del Feudatario, ritornano al demanio Baronale». Gli antichi incartamenti parlano ancora più esplicitamente quando, facendo riferimento all'esercizio baronale del diritto di mezza portadia evidenziano che «ciascun Popolatore, e seminatore è tenuto annualmente a corrispondere per diritto di mezza portadia, non essendo vassalli, ma abitatori, la metà di quello che seminano in grano, orzo e fave, e dovrà il Barone ogni anno per accertarsi del quantitativo che ciascun individuo avrà seminato farne fare una visita mediante periti», precisando che erano tenuti alla corresponsione del mezzo portatico sia i naturali che i «forestieri, nessuno esente compresi anche Cavalieri, Preti e Case Religiose non residenti nella popolazione». La mezza portadiga o terratico, era una forma di fitto agrario ossia un tributo in natura (orzo, grano, fave e ceci), che permetteva l'uso di una superficie del feudo previo accordo fra due o più parti. Tra i diritti misti il feudatario si avvaleva del deghino dei porci e pecore, per il quale riscuoteva ogni anno dagli abitanti un capo per ogni venti di porci e così per le pecore. Gli abitanti erano tenuti a pagare, per diritto di Curia, mezzo scudo per segno, mentre i forestieri un capo per segno. Il diritto di miele rientrava nei diritti giurisdizionali, e i popolatori del villaggio cedevano annualmente al Barone una libra ogni dieci di prodotto. Nelle carte di infeudazione tra i diritti che il feudatario esigeva dai forestieri e dagli abitanti del paese erano compresi quelli di pastura dei porci, ossia di sbarbagiu, pagato dai porcari in misura del 5% del mardiedu (capi matricini) introdotto nei ghiandiferi, e quello di pascolo delle capre per il quale gli allevatori erano obbligati a versare un soldo all'anno, che veniva però sistematicamente negato. Alla luce di questi ragguagli, si comprende con facilità la condizione di miseria generalizzata che dilagava tra i fuochi, sostenuti da un reddito irrisorio, frutto depauperato dall'onerosità della mezza portadia, imposta non sulla quantità di prodotto raccolto, bensì su quello seminato. Mentre in alcuni centri dell'isola, la gravosità di questo tributo spinse l'amministrazione a ridurlo senza precisi e costanti parametri, Sarroch fu oppressa dalla mezza portadia fino agli ultimi giorni di vita del sistema feudale. Il Decreto Regio del 12 aprile 1755, istituì i Monti frumentari o granatici in tutti i villaggi dell'isola. L'Ente rappresentava una sorta di banca del grano e dei cereali, un vero e proprio polo di raccolta da cui i coltivatori potevano attingere in caso di bisogno. Gli agricoltori si trovavano in obbligo di adempiere ad alcuni servizi senza compenso, le roadie (eseguite soprattutto nei giorni festivi), occorrenti all'accumulo del prodotto e alla conseguente attivazione del credito agrario. È incerta la data in cui il Monte granatico del villaggio incominciò ad operare, ma era certamente attivo nell'ultimo ventennio del Settecento con sede nella odierna Piazza Repubblica fino al 1891, anno in cui venne soppresso, poiché non conforme agli statuti e regolamenti dell'opera affidatagli. Gli starelli depositati nel magazzino riuscivano a promuovere un valido sostegno verso i contadini più deboli solo per brevissimi periodi poiché l'amministrazione dei fondi veniva dirottata, con preoccupante frequenza, verso interessi che esulavano dall'incremento agricolo. Poche furono le annate del XVIII secolo che, rispetto al fabbisogno alimentare locale e a quello per le semine, si distinsero per una eccedenza di produzione. Il 1785 fu una fra quelle.
Frattanto il 22 agosto del 1780 con editto di Carlo Emanuele III venne stabilito che in ogni Comune il Monte granatico dovesse essere affiancato e supportato da un Monte di soccorso o nummario al fine di ovviare, attraverso concessioni di prestiti a tasso agevolato (per l'acquisto di buoi d'aratro e di attrezzature agricole) alle precarie condizioni portate dai raccolti sterili e dalle frequenti carestie che si abbattevano sull'isola intera. Tuttavia, così come il Monte frumentario, il Monte di soccorso non fu mai realmente funzionale. Nell'ottobre del 1805 Francesco Piras, primo sindaco di Sarroch che figura negli Atti, lamenta che il grano esistente «nel magazzeno del Monte, non basta neanche per il quinto delle terre preparate, per non avere la maggior parte degli individui trasmesso a questo Monte neppure il terzo di quello che dovevano». Nella supplica, si chiedeva esplicitamente aiuto al Governo affinché portasse un pronto soccorso alla popolazione del Comune e ai paesi limitrofi piegati dalla calamità. I replicati ricorsi e le istanze fatte dal consiglio comunitativo, dai parroci e da molti altri residenti, persuasero la baronessa che decise di «lasciar colà il grano di suo reddito ascendente a starelli 500 circa per vendersi a quei popolatori a prezzo non inferiore di reali 24». Il Monte di soccorso operava cercando di ostacolare la propagazione del fenomeno dell'usura (praticata in primis da ecclesiastici e maggiorenti locali) e arginando la disperazione di un gran numero di capi famiglia falcidiati dalla pesante politica fiscale. La valutazione del patrimonio di ogni singola azienda e la corretta compilazione delle liste feudali ricadevano nelle competenze della "Giunta dei Probi uomini", organismo che affiancava il "Consiglio comunitativo" in circostanze particolari. I membri componenti, considerata la delicatezza degli incarichi loro affidati, dovevano primeggiare per onestà e particolari qualità umane. Tuttavia i requisiti richiesti venivano spesso surrogati dal nepotismo e dalla discutibile moralità delle consorterie parentali che complottavano a vantaggio del proprio economico. Da questo stato di cose nacquero tra i gruppi familiari più influenti pesanti ingiustizie, abusi e cruente ostilità, che si protrassero nel tempo. Il "Consiglio comunitativo" regolamentato dall'editto di Carlo Emanuele III del 24 settembre 1771, unito alla "Giunta dei Probi uomini" costituiva una Giunta doppia con maggiori garanzie. Come prevedeva il Regio Editto, il villaggio di Sarroch, compreso tra quelli che contavano dai 100 ai 200 fuochi, veniva amministrato da un "Consiglio comunitativo" composto da cinque consiglieri. La possibilità di rivestire questa carica amministrativa richiedeva al candidato la residenza nel villaggio da almeno dieci anni ed un'età non inferiore ai 30, in più essere «di nota probità e buon discernimento, zelanti del pubblico bene, benestanti giusta la loro qualità e condizione, non idioti per quanto sia possibile, né fra di loro congiunti in primo o secondo grado di consanguineità o primo di affinità, da computarsi secondo la ragione canonica». Il metodo elettorale assicurava con discreta copertura l'eterogeneità degli elettori, anche se concedeva al feudatario di insinuare la propria influenza sulla scelta dei componenti del consiglio, condizionamento che fortunatamente veniva spezzato dalla brevità della carica triennale di consigliere. A dicembre di ogni anno era fissata l'elezione del sindaco che rimaneva in carica per dodici mesi. Nella supplica del 23 maggio 1760, controfirmata dal notaio Salvatore Agostino Salis, il villaggio, tra le altre richieste, prega il barone di concedergli un sindaco seguendo la canonica prassi per la quale, «previa giunta di cinque probi uomini, dovranno essere ternati quelli che possono concorrere a tenore di legge». Questo documento fa supporre che, anteriormente alla data sopra citata, il villaggio non fosse regolarmente amministrato da una Giunta comunitativa né da un primo cittadino, ma che l'interesse predominante del feudatario fosse circoscritto all'attuazione di un servizio di polizia tributaria espletato dai Probi Viri, che gli garantisse l'accertamento dei singoli patrimoni presenti sul territorio e la riscossione del donativo. L'impegno dei periti prescindeva dal benessere della comunità e dalla tutela dei suoi beni, emarginando la sicurezza dei singoli abitanti e l'ordine pubblico. Un'idea sulle condizioni economiche e sociali del villaggio ci proviene dalle «liste di riparto» delle quote spettanti ad ogni fuoco, le quali nascevano più per esigenze di carattere censuario che non di registrazione demografica. Numerose sono le liste feudali rinvenute, ma nell'impossibilità di allegarle tutte nel dettaglio si è operata una sintesi dei dati inventariati su due diversi esemplari di elenco: il primo relativo al 1762 e il secondo al 1830, focalizzando l'interesse sui maggiori produttori e contribuenti del villaggio. È di estremo interesse porre questi dati a confronto tenendo presente i marginali, ma visibili cambiamenti introdotti nel 1820 dal Regio Editto sopra le chiudende che vide aprirsi uno spiraglio nell'ambito dell'iniziativa privata. D'altra parte però, il superamento dell'uso comune delle terre spezzò drammaticamente gli equilibri tradizionali della società acuendo lo scontro tra contadini e pastori che, causa «l'insufficienza della normativa e l'assenza di controlli», tennero a battesimo decenni di vendette familiari. I primi atti d'estimo (Estimes de los sembrados) che ci sono pervenuti, cumulativi delle terre lavorate di S. Rocco, salti di Pedra Sali, Orri e la Madalena, risalgono al biennio 1762-63, anni in cui, per la morte senza discendenti di Giuseppe Vico Torrellas, il feudo viene stimato devoluto e sequestrato dalla Reale Azienda. Le tabelle delle liste feudali annotano il quantitativo che ciascun abitante (residente o forestiero) seminava in grano, orzo, fave, ceci e lino (rispettivamente trigo, sevada, avas, garvansas, lino).
Il resoconto evidenzia esclusivamente i maggiori produttori di grano orzo e fave, per l'annata che vide un totale di St. 1057.0.2 di seminato di grano, St. 287.6.0 di orzo, St. 76.0.2 di fave, St. 12.1.2 di ceci e St. 5.3.2 di lino. La mezza portadia privava della metà del proprio seminato ogni singolo sarrochese produttore. Il maggiore produttore e contribuente di quegli anni fu Joseph Addary, equiparabile alla figura di un Marchese di Thiesi, massimo produttore del Comune dai primi decenni dell'Ottocento. Una personalità carismatica e spiccate capacità manageriali rapportate all'epoca gli valsero l'appellativo di Su Capitanu, una sorta di timoniere della villa allora abbandonata agli umori e ai vizi del barone. Gli Addary, con capostipite Salvatore coniugato con Josepha Loy furono certamente una delle famiglie che presero parte alla rifondazione del paese nella seconda metà del XVII secolo. Joseph, Sisinnio, Francesco e Grazia, gli unici figli della coppia, portarono avanti la breve discendenza che si interruppe nel tardo Settecento. Giuseppe seppellì tre mogli, (Isabella Daga, Rosa Cambula, Vicenta Matta) e pochi giorni dopo la celebrazione del quarto matrimonio con Rosa Musu morì all'età di sessant'anni lasciando per lo più eredi femmine. In quegli stessi anni contribuiva all'accrescimento dei proventi baronali il patrimonio di altre importanti famiglie: i Casu (Quan Antioco e Francisco), i Carrus (Francesco Carrus Major de Justicia), i Congiu, i Caddeo (Sebastiano), i Vargiu, i Pichony, i Lindiri, i Lenti e i Pinna; e quello di singoli personaggi come il notaio Gayetano Sechy, Lucifera Barca vedova di Miguel Pinna e il Reverendo di Sarroch Francesco Marramaldo. Nel 1730, anno in cui i Quinque Librorum cominciano a fornire notizie precise sulla popolazione, il villaggio, che secondo il censimento del 1728 contava già 145 fuochi, continuava lentamente ad espandersi. La famiglia della quale venne registrato il maggior numero di dati fu quella dei Barroy. Tra gli anni trenta e settanta del Settecento i Barroy si ramificarono capillarmente fino a raggiungere intorno agli anni sessanta più di 15 fuochi (così come accadde ai Pinna nella seconda metà dell'Ottocento). Parteciparono anch'essi al ripopolamento del villaggio, rappresentati dai primi esponenti: i due fratelli Quan Santus e Antonio rispettivamente sposati con Dominga Escano (Scano) e Josepha Pistis. La famiglia conservò le sue modestissime origini fino al momento in cui, intorno al 1805, se ne perse ogni traccia presumibilmente a causa di un trasferimento degli ultimi componenti. Talmente questa risultò numerosa che, in un documento del 1858, si ha notizia di una piccola zona chiamata Barroy interna al rione di Santa Vittoria che, con tutta probabilità, identificava il lato del paese precedentemente abitato dalla famiglia. Intanto, nello stesso periodo, cominciavano ad ingrandirsi le più potenti famiglie dell'Ottocento sarrochese che, a fasi alterne, avrebbero dato un contributo essenziale nell'amministrazione del villaggio: i Cois, i Demontis, i Concas, i Tiddia e seppur in maniera inferiore i Secci, i Guiso, i Pinna, i Murgia e i Massa. La "lista di riparto" del 1830 presenta nuovi nomi, per alcuni dei quali è necessario aprire una doverosa parentesi. Stefano Manca di Thiesi, Marchese di Villahermosa, in quegli anni ormai deceduto, fu il padre fondatore dell'azienda agricola di Villa d'Orri. Illuminato sostenitore e amante dell'agricoltura, con la sua opera seppe trarre da quella terra malsana, dalla pestifera landa malarica, un podere agricolo modello. Rese possibile la trasformazione fondiaria più sorprendente di quei tempi, attuando una costosissima opera di bonifica e l'impianto di un sistema idraulico che facilitò la crescita di "vigneti, frutteti e agrumeti, giardini ed erbai per il bestiame". Il primo catalogo generale delle piante coltivate nella Villa d'Orri fu pubblicato nel 1842, quando i giardinieri erano Antonio Sitzia e Giorgio Marcia. Il Cherchi Paba ricorda con puntualità che il Marchese fu il primo ad introdurre in Sardegna «il mandarino e numerose varietà di fruttiferi. Per dare una immagine della somma importanza di Villa d'Orri basti dire ch'esso comprendeva ben 959 piante diverse escluse quelle da giardinaggio. Delle piante fruttifere vi erano 37 varietà di albicocchi, 57 varietà di ciliegi, 7 varietà di mandorli, 70 varietà di peschi, 68 di susini, 141 di peri, 58 di meli, 10 di agrumi, 37 di altri fruttiferi vari. Per il 70% erano tutte varietà nuove per la Sardegna». La diffusione della cultura degli agrumi fu di tale rilievo per il Marchese che istituì nella stessa villa la prima scuola pratica di agrumicoltura, la cui eco richiamò numerosi interessati da varie località dell'isola, compresi i figli degli agrumicoltori di Milis.
 Il Marchese di Thiesi possedeva: Sollastru de su Para; Su meriagu mannu defoxi; Foxi; Massidda; Gruxi de Milia; Tuerra; Sa guardiola,; Sa tanca de G. Dessi; Suforru de sa gruxi de murmuri; Su nuraxi; Su segretariu; Mascheroni; Gennauru. Vennero seminati un totale di 570.9 starelli di grano e 100 di orzo. La metà da esigere fu di 285.4 1£ st. di grano e 50 di orzo. L'organizzazione sociale del villaggio risulta poco complessa. Palesa un'esigua percentuale di possessori terrieri (ancora meno risultavano i proprietari) che, identificabili con i rappresentanti del clero e con coloro che ricoprivano autorevoli cariche nella gestione del villaggio, versavano in discrete condizioni economiche. In posizione subalterna, una falange di allevatori e contadini, il bracciantato agricolo e i piccoli artigiani. Dalla seconda metà del Settecento fino alla prima dell'Ottocento ci si imbatte in una comunità a dominante pastorale, sebbene avvicinandosi ai primi anni sessanta dell'Ottocento il rapporto tra agricoltura e pastorizia andò via via equilibrandosi, attuando quel sorpasso che permetterà di parlare di villaggio a dominante agricola. La ricchezza agricola di Sarroch risiede oggi come allora nella versatilità del terreno alla frutticoltura. In generale i peri erano coltivati su larga scala in tutte le campagne dell'isola e nel Settecento una grande quantità di perastri fu innestata nelle campagne di Paulilatino a seguito della propaganda del clero. Anche a Sarroch, come racconta il La Marmora, il territorio era ricco di fruttali che si smerciavano nel mercato di Cagliari, tra cui i più abbondanti erano i peri. «Quest'industria si deve ad un parroco, il quale vedendo che il territorio era pieno di alberi di peri selvatici, quando i contadini andavano da lui a confessarsi, metteva loro in penitenza di andare ad innestare un certo numero di questi alberi, conforme la gravezza dei peccati». Il buon lascito dell'insegnamento del parroco tramandò un impegno nella cura di queste specie fruttifere che non si è riscontrato in altre come quelle del mandorlo e nell'agrumicoltura, che seppur presenti non divennero mai una specializzazione territoriale. Intanto quando la gelsicoltura approdò in Sardegna, sull'onda di entusiastici progetti riformatori, Sarroch, insieme ad altri centri del Campidano, fu contagiata dalla febbre gelsicola e dalla bachicoltura che, come nel resto dell'isola, sfumarono nel populismo del Piemonte, incapace di soddisfare con adeguate strutture l'assorbimento del prodotto. Di discreto interesse fu la salicornicoltura, ossia la coltura dell'erba soda (usata nella medicina popolare per le sue proprietà antiscorbutiche, depurative e diuretiche), accompagnata da un movimento commerciale che però non ebbe lunga vita. L'olivicoltura si sviluppò in maniera soddisfacente raggiungendo la massima produttività nel 1872, prima che la costruzione della strada consortile da Pula alla Maddalena portasse ad una massiccia espropriazione di terreni destinati a questa coltura. Nell'arco di soli due anni il Comune registrò un decremento vertiginoso della produzione oleicola, muovendo dai 1.600 ettolitri del 1872 ai 500 del 1873. Fra i prodotti forestali oltre al legname da ardere, rivestiva un peso ragguardevole la produzione di carbone vegetale i cui picchi massimi di raccolta si incentrarono nel biennio 1872-73 (10.000 ettolitri nel 1872 ed 8.000 l'anno seguente). Esigua la raccolta di cortecce degli elei e di maggior spessore quella dei giunchi palustri che nel 1872 venivano venduti a 2 lire al fascio per una produzione totale di 200 fasci. L'Angius, citando le fatiche dei "legnatori", racconta che alcuni di questi erano soliti tagliare legne sottili come il cisto, lentisco, il mirto e altri arbusti con le quali formano fasci o fascine, per questo motivo erano eh i a m a ti fascinajus; altri tagliavano le legne più grosse e venivano appellati linnaresus. Il prodotto di questo lavoro veniva trasportato da navicelli nella città di Cagliari e questo trasporto, costante durante tutto l'anno era attivissimo nei mesi estivi. Il profitto dei ghiandiferi e dei frutti dei carrubi fu mediamente alto lungo tutto il XIX secolo. Tuttavia, malgrado le carestie e il flagello delle cavallette rendessero in numerose occasioni nulli gli sforzi dei coltivatori, il punto di forza dell'agricoltura sarrochese fu la produzione cerealicola e della fava, che si mantennero su livelli complessivamente alti. L'orticultura, atta a soddisfare prevalentemente esigenze di sussistenza, era strettamente limitata al giardino familiare, con dominanza di specie tradizionali come il cardo, il carciofo, la cipolla, il cavolo e raramente la patata. Come si è potuto constatare, dal punto di vista economico, il biennio 1872-73 incarnò gli anni d'oro di tutto il secolo, che tarderà, se non negli ultimissimi anni a ripresentare tanta abbondanza, causa l'erdità lasciata dal violento bilancio della carestia del 1878.

IL CENSIMENTO DEL 1858. SARROCH IN CAMMINO VERSO ANNI DI FITTIZIO AFFRANCAMENTO SOCIALE
L'ASCS ha custodito e mantenuto in buone condizioni un documento dal considerevole valore storico: il Registro della popolazione locale secondo lo stato del 31 dicembre 1857 al 1 gennaio 1858. Il fascicolo consta di 114 pagine, 100 delle quali manoscritte dal delegato speciale, il notaio Alessio Cois e controfirmate dai restanti membri della Commissione Locale: Elisio Stara sindaco Presidente, i sacerdoti Vincenzo Deplano e Ambrogio Piras, Nicolò Guiso e Giuseppe Dessi consiglieri comunali. Dal confronto tra i dati scaturiti dalla indagine sull'accampionamento del 1858 e quelli registrati dall'Angius circa venti anni addietro, risultano di grande interesse la ripresa e l'avanzamento compiuti dal villaggio mediante la durissima conquista e il sacrificio dell'intera popolazione. Alla voce "Sarrocco" del Dizionario geografico, l'autore esordisce con una minuziosa descrizione del villaggio e, dopo alcune righe destinate a delinearne l'esatta ubicazione geografica, ripropone la primordiale suddivisione de is bixinaus ancora oggi viva nella memoria dei sarrochesi: nella villa «i paesani appellano il rione di s. Vittoria Barraccas de baxiu (baracche di giù) e quello di s. Georgio Barraccas de susu (baracche di sopra), perché le prime abitazioni che si piantarono non furono altro che capanne, simili a quelle dei pastori». Coloro che ripopolarono i due rioni vengono rudemente qualificati «gente collettizia, pastori e banditi montanari», e le loro modeste abitazioni «un gruppo di capanne di uomini selvaggi». Allargando il discorso ai dati statistici sulla popolazione, si legge che i due vicinati intorno al 1839 contavano «anime 822, distinte in maggiori di ventanni, maschi 242, femmine 238, e in minori maschi 168 femmine 182, distribuiti in famiglie 223». Nascevano ordinariamente all'anno 25, morivano 16 e si celebravano 5 matrimoni. Questi numeri aderiscono solo in parte ai dati attinti dai Quinque Librorum: si calcola infatti una media annuale di 26 nati, 28 morti e circa 6 matrimoni relativa al primo ventennio dell'Ottocento, mentre la media registrata nel ventennio successivo supera di gran lunga i dati dell'Angius annotando 38 nati, 34 morti e 15 matrimoni. La panoramica delineata dalla rilevazione statistica del 58 conta 1157 anime, distinte in 602 maschi e 552 femmine che, raffrontate alle 822 del 1839, segnalano un incremento della popolazione pari a circa il 40%. Il campionamento numera i soggetti presenti all'interno di ogni abitazione e appuntando sia gli estranei sia gli assenti, permette di stimare con precisione 942 residenti. Si calcolano 29 istruiti la cui età media rientra nei 35 anni circa, e 6 individui che sanno leggere ma non scrivere (donne e giovanissimi entro i 15 anni). In base alle informazioni raccolte fino al 1839, l'Angius dichiara che «la scuola primaria potrà avere 15 fanciulli, quando essi vi concorrono tutti, e quando piace al maestro di far scuola. Dopo tanti anni che fu istituita non nè uscito alcuno che sapesse leggere e scrivere. Forse non sono più di 8 quelli che in questa popolazione leggano e scrivano, computati anche i preti». I primi dati concernenti la scolarizzazione risalgono al 1847. Secondo l'articolo 19 del Regio Regolamento 25 giugno 1824 ogni Comune in cui erano presenti le Scuole Normali era in obbligo di compilare trimestralmente un documento che attestasse lo stato dimostrativo degli studenti intervenuti alle lezioni. Lo stato del trimestre che comprendeva i mesi di luglio, agosto e settembre del 1847 prospetta un quadro poco confortante che negli anni successivi subì variazioni maggiormente scoraggianti. Dai mandati di pagamento rilasciati dall'intendenza Provinciale si evince che dal 1847 al 1858 il precettore elementare fu Giovanni Porceddu, il quale, compilando poche righe destinate ai superioi, aiuta a prefigurarci il locale piccolo e buio all'interno del quale si svolgevano giornalmente le ore di lezione: «Una piccola camera provveduta di porta e di finestra, d'un crocifisso, d'una predella colla tavola e sedia per il maestro, banchi per sedere e far scrivere gli allievi una lavagna larga 1,40 alta 0,70, un quadrato di legno con le pallottole per lo studio dell'aritmetica, un altro quadrato con cilindri per lo studio speciale delle frazioni, gesso, spugna e libri carte e penne per i fanciulli poveri». L'istruzione elementare femminile prese avvio negli anni cinquanta. Nel 1854 una novella maestrina, la diciottenne Eugenia Cois, figlia del notaio Alessio e di Girolama Piga, intraprese questa nuova esperienza anche grazie alla generosità del padre che mise a disposizione del Comune un locale dove poter accogliere la ridottissima scolaresca. Intanto il 1859 vide salire in cattedra un nuovo precettore normale, Carlo Romanino sostituito il primo marzo 1863 da Michele Ollosu che, insieme alla moglie Eugenia Cois, dedicherà alla passione dell'insegnamento una larga parte della propria esistenza. Il numero dei frequentanti esprime una forte instabilità di anno in anno, ancora più marcata tra un trimestre ed un altro. L'abbandono scolastico si concentrava prevalentemente dal mese di maggio fino ad ottobre incluso, periodo in cui i componenti più piccoli delle famiglie indigenti venivano chiamati ad assistere gli adulti nelle attività campestri e nei vigneti. I bambini al di sotto dei dodici anni rappresentavano nel '58 il 27,74% della popolazione divisa in 625 fuochi contro i 223 del 1839. Su 265 unità familiari era presente una forte prevalenza di famiglie nucleari pari al 63,77% del totale (169 fuochi). I restanti gruppi familiari designavano una tipologia di famiglia definita estesa o allargata, sia ai soli parenti sia ai soli conviventi, ma anche mista. In corrispondenza di carestie e pestilenze, il comportamento delle famiglie subiva una visibile variazione tendente ad una riduzione delle famiglie nucleari. È probabile che quei fuochi che poggiavano su una elementare organizzazione aziendale avessero grosse difficoltà a conservarsi in condizioni avverse, per cui la spontanea tendenza fu quella di convergere verso la famiglia d'origine in cui l'unione garantiva una struttura più fortificata e solida. È stato possibile risalire alla distribuzione dei fuochi su tutto il territorio comunale: la sezione di Santa Vittoria era nel '58 la più popolosa in quanto accoglieva 181 fuochi in altrettanti fabbricati a cui si aggiungevano quattro costruzioni non abitate. Il quartiere comprendeva dieci diverse zone nominate: Chiesa Parrocchiale; Su Linnarbu (la zona meno popolosa che contava 7 unità abitative); Su Nuraxi; Monti Gravellus; Sa Barona; Casa Comunale; Rocas de Perdu; Funtana Selis; Monte Granatico (il più densamente popolato con 168 abitanti) e Barroi. Barraccas de susu comprendeva invece solo due zone: San Marco che contava 38 stabili e San Giorgio che ne accoglieva 36. Orri e i cascinali sparsi nelle sue vicinanze, facevano capo alla parrocchia di Santa Vittoria e la Casa Villahermosa computava complessivamente 12 edifici di cui 9 occupati da altrettanti gruppi familiari e 3 abitati esclusivamente da domestici e servi. Alla fine degli anni 30 l'Angius indica «110 individui applicati all'agricoltura, 140 alla pastorizia, 20 a diversi mestieri di muratori, falegnami, ferreri, calzolai ecc.», con un'ordinaria seminagione «di starelli 150 di grano, 300 d'orzo, 100 di fave, 30 di legumi, 20 di lino». Nel '58 invece la popolazione attiva contava 446 addetti, dei quali 146 erano occupati nell'allevamento, 142 nelle attività agricole, 109 nei più svariati mestieri mentre 49 erano i cosiddetti giornalieri che supplivano la mancanza di competenze professionali con la triste arte dell'arrangiarsi e del vivacchiare. Il precedente raffronto palesa un incremento dell'agricoltura pari al 29,9% e un progressivo allargamento dei gruppi professionali. A ridosso degli anni '60, le categorie lavoratrici conteggiavano: 13 proprietari; 26 domestici; 9 muratori; 7 ferrai; 4 cacciatori; 5 scarpari; 4 carpentieri; 5 carabinieri; 2 falegnami; 2 bottegai; 2 carratori; 2 notai (Alessio Cois e Giovanni Lilliu); 3 giardinieri; 2 precettori; 1 sarto; 2 guardaboschi; 3 sacristi; 3 sacerdoti; 1 flebotomo; 3 castaidi; 2 becchini; 1 carbonaro; 4 braccianti; 1 scrivente e 2 militari. Su 1157 abitanti versavano in condizione servile e domestica ben 142 individui il cui 27,35% era costituito da giovani al di sotto dei 16 anni. Dopo le Chiudende un relativo potenziamento agricolo si verificò concretamente, ma, nonostante la casistica fosse notevolmente migliorata rispetto al '39, nei volumi delle cause civili di trent'anni appresso figurano ancora numerosissimi i contenziosi intrapresi per danni cagionati alle colture dal pascolo di buoi, pecore, porci e capre. Assenti una rigorosa regolamentazione del nuovo ordinamento terriero e le ispezioni atte a garantire la corretta applicazione della farraginosa normativa vigente, le invasioni e i danni ai chiusi erano ancora all'ordine del giorno poiché i numerosissimi contravventori rimanevano pressoché impuniti, spesso incoraggiati e coperti dalla disonestà di alcuni membri della compagnia barracellare. A questo proposito l'Angius asserisce che «è vero che sono in Sarrocco i barrancelli. Essi esigono il prezzo che si è convenuto per l'assicurazione, ma non vegliano per la custodia della proprietà, e non pagano i danni: anzi si crede che siano gli stessi barrancelli che rubano, accadendo spesso che la loro compagnia sia composta di persone poco oneste, e meglio come furono qualificati da chi li conosce, di ladri matricolati». L'opinione dell'autore, per la quale la «tracotanza de pastori» fosse una delle principali cause contrastanti la crescita dell'agricoltura, appare alla luce di diversi elementi esageratamente restrittiva e cieca nell'osservare la dinamica intricata che sconvolgeva le campagne. Il ceto pastorale era divenuto ormai oggetto di vergognosi abusi che vedevano la progressiva contrazione dei confini del pascolo di cui raramente in passato si pativa l'insufficienza. D'altro canto chi usciva vincitrice da questo stato di cose era la piccola borghesia terriera rappresentata dalle famiglie politicamente egemoni, mentre il proletariato agricolo, il cui rapporto con la proprietà della terra si andava pian piano affievolendo, cresceva a dismisura. Il malessere sociale sfociava in azioni criminose il cui numero avrebbe dovuto destare preoccupazione nel governo, la noncuranza del quale accresceva una situazione che andava assumendo risvolti grotteschi. L'Angius attraverso un giudizio eccessivamente severo sosteneva che i sarrochesi erano gente robusta, «ma non molto laboriosa, e poco pure da lodare nella parte morale, la ragione della qual condizione devesi riconoscere nella quasi nulla istruzione religiosa, e nella pochissima attenzione del governo sopra di essi, che si sono sempre lasciati a loro stessi», per queste motivazioni «i delitti sono perciò frequenti in questo territorio, ma è caso raro che siano approvati e che si puniscano i delinquenti». Un'estenuante lotta contro il succedersi di crisi economico produttive, la conseguente penuria di mezzi e le condizioni di degrado strutturale del villaggio nonché il disinteresse costantemente dimostrato dalle autorità governative condussero i sarrochesi a promuovere individualmente e spesso illegalmente quell'equilibrio sociale che, nonostante i contingenti mutamenti legislativi, tardava ad attuarsi. L'osservazione del fenomeno criminale che andava manifestandosi nel paese fa pensare che il quieto vivere sociale fosse turbato da due diverse forme di criminalità: da una parte la disperata ribellione di coloro che intendevano fuggire da un'atavica indigenza e dalle sofferenze da questa determinate, dall'altra il crimine organizzato che mirava a destabilizzare il potere costituito nelle sue più alte rappresentanze comunali, rincorrendo interessi personali e clientelari. L'attentato contro il sindaco, notaio Giovanni Lilliu, commesso la notte del 30 maggio 1850 diede una svolta decisiva allo stato di abbandono e di emarginazione in cui versava il paese. In una missiva diretta personalmente all'intendente Generale di Cagliari, il Lilliu evidenziava come già con atto consolare del 24 agosto 1847 il Consiglio a nome del Comune reclamava presso V.S. Ill.ma contro l'indegno parroco Ambrogio Piras «facendo conoscere le qualità fìsiche e morali di quest'uomo abominevole». Tuttavia la politica arcivescovile a fronte dell'interessamento dell'autorità politica sventò quel ricorso, e per non breve tempo alimentò di vacue speranze il Consiglio ed il Comune. Il parroco Ambrogio Piras, «nella cui casa si svolgevano le segrete riunioni dei più facinorosi», insieme a Franco Orrù, servo del Marchese di Villahermosa e Angelo Massa, vengono additati dal sindaco quali mandanti del fallito attentato alla sua persona. Nell'ennesima missiva inviata all'intendente di Cagliari, si ribadiva con intransigenza che «se la legge avesse provveduto con energia e prontitudine contro il R.do Piras, e l'Orrù fin da quando il governo ne fu da me legalmente avvisato certamente la mia vita e quella del Consiglio e Segretario non sarebbe in pericolo, l'ordine pubblico non sarebbe capovolto, le leggi sarebbero rispettate, le sostanze garantite, ma fino a quando il Governo Superiore non allontanerà da questo Comune il R.do Piras, non si restituirà la calma negli animi, la tranquillità nel Paese, la sicurezza nelle persone: fino a tanto che il Popolo di Sarrok non venga provveduto d'un buon Parroco che l'instruisca colla voce e coll'esempio sarà un Popolo delittuoso ed anarchico». In chiusa al comunicato, il sindaco implora la concessione delle dimissioni, vedendosi costretto, in caso contrario, ad allontanarsi dal paese per salvaguardare la propria incolumità. La vicenda, quantomeno singolare, non foss'altro per i ruoli rivestiti dai vari personaggi, non ebbe alcuna risoluzione positiva. In questo clima inquietante, il 5 giugno 1850, un evento inaspettato svegliò il villaggio oramai ritiratosi per la notte. Un drappello di Guardie Cacciatori, in numero di dieci, capitanati dal Sergente Mannaj sopraggiunsero nel Comune apparentemente senza istruzioni di sorta. La truppa fu spedita provvisoriamente per attuare una sorveglianza attraverso la "distribuzione a biglietto" dei militari su tutto il territorio comunale. La non poca distanza tra i due vicinati di Santa Vittoria e San Giorgio obbligava a una pericolosa dispersione delle forze militari, che in caso di emergenza avrebbe reso inutile lo scopo della missione. Così la truppa, sotto la stretta sorveglianza e gli ordini del Capitano, rimase quartierata nella casa comunale provvista del necessario per l'accoglienza grazie alla pronta collaborazione dei sarrochesi. Per disposizioni superiori la Regia truppa partì alla volta di Cagliari il 30 giugno dello stesso anno, abbandonando il paese in drammatiche condizioni di emergenza. Di lì a poco il Pavese, Intendente Generale della Divisione Amministrativa di Cagliari, diede il suo consenso affinché venisse realizzato un sopralluogo nel Comune (compiuto 18 gennaio 1851), per verificare se il locale di proprietà dei Sigg. (minori) Manca, rappresentati dal Sig. Antonio Pandolfi di Cagliari, fosse confacente o adattabile al preannunciato utilizzo di Caserma. L'attivazione della Stazione dei Cavalleggeri, ritardata a causa della mancanza di indispensabili strutture interne, fu completata nel luglio del 1851, quando dietro gentile concessione del Pavese il mobilio che arredava l'ufficio dell'intendenza Generale di Cagliari, non più necessario per particolari circostanze, fu prontamente ceduto all'Arma. Con buona probabilità, la costante presenza delle forze dell'ordine costituì un discreto deterrente rispetto all'esecuzione di reati minori (pascolo abusivo, casi di abigeato, furti, rapine, aggressioni, ecc.), senza però portare alcun condizionamento all'assoluta volontà dei mandatari di crimini efferati, come quello che nel 1857 cagionò la morte del Segretario Comunale. Alle 8 di sera del 15 aprile, il notaio Efisio Serci, sotto gli occhi sgomenti dei compaesani, fu barbaramente assassinato di fronte alla propria abitazione nel centro del paese. Raggiunto da due colpi di arma da fuoco, morì dopo cinque ore di agonia. Dell'assasinio non si conobbero né le motivazioni né i responsabili, come reiteratamente accadeva in simili circostanze. Nonostante tutto, l'istituzione della Stazione dei Cavalleggeri, futura Caserma dei Reali Carabinieri, rappresentò per il paese intero l'emblema e la speranza di rinnovamento, la perdita dell'anonimato e la fuoriuscita da quell'isolamento che da secoli ne ovattava la voce. Affiancò questa recente novità un secondo evento ricco di significato che, il 25 febbraio del 1854, portò una ventata di entusiasmo tra la popolazione. Una comunicazione dell'intendente Generale Magenta informava il Comune sull'imminente apertura dei lavori per la costruzione della linea telegrafica (elettrica sottomarina), strumento di incalcolabile utilità all'economia e alla vita dell'isola. Il servizio di sorveglianza affidato al Municipio, e per questo alla Compagnia Barracellare, considerando che la linea percorreva il territorio comunale per la lunghezza di 10.121 metri e fissando un compenso di 15 lire per km, assicurava da parte del governo un compenso annuo di lire 151.87 centesimi. Vent'anni dopo, la mattina del 6 febbraio 1877, con l'esclamazione Viva il Re! Viva l'Italia! Viva Sarroch!, l'entusiasmo raggiunse la sua massima espressione quando il Segretario Comunale, Carlo Romanino, alla presenza del sindaco, dei Consiglieri Comunali e dei rappresentanti della Chiesa, redasse un documento storico che, come egli stesso presagì, col tramandare ai posteri l'incancellabile memoria di un «fausto evento, farà epoca negli annali di Sarroch». Si annota con orgoglio che dal Sig. Ispettore telegrafico il Cav. Giordano Andrea venne inaugurato il telegrafo, «spedendosi da questo Municipio n. 5 telegrammi, il primo a S.E. il Ministro dei Lavori Pubblici, il secondo al Sig. Prefetto della Provincia, il terzo al Sig. Alessandro Del Monte di Livorno, che largamente e generosamente concorse all'impianto, il quarto al Cav. Don Luigi Siotto Consigliere alla Corte d'Appello che molto cooperò allo stabilimento del telegrafo e finalmente al Municipio di Pula, capoluogo di mandamento». Nel 1887 rappresentò un grosso vantaggio per i privati, per l'amministrazione comunale e per la pubblica sicurezza, l'impianto di un ufficio telegrafico, avallato dal concorso finanziario di Alessandro del Monte, direttore dell'omonima ditta livornese che si occupava della lavorazione carbonifera delle risorse forestali vicine al Comune. Questi mutamenti, che apparivano rivoluzionare in positivo la società sarrochese, sottendevano un'immobilità, se non addirittura un grave arretramento economico e culturale di una larga parte della popolazione, il cui asservimento materiale e psicologico alla oligarchia fondiaria non solo condizionava fortemente l'assetto della proprietà, ma contrastava e insabbiava le già trascurabili iniziative di privati che cercavano facilitazioni e sussidi. Mentre l'amministrazione comunale, soffocata da scelte difficili e da un bilancio ristretto, non riusciva a soddisfare le esigenze locali, Sarroch cambiava aspetto.

 OLIGARCHIA FONDIARIA E CRISI SOCIALE: UNA SOCIETÀ BLOCCATA
Si è già rimarcato quanto gli anni cinquanta dell'Ottocento abbiano configurato una fase importantissima di transito. Imboccare la via della modernizzazione e sottrarsi al sottosviluppo richiedeva l'attuarsi di un lungo processo all'origine del quale si sarebbe dovuto recidere quel patologico legame di sottomissione ed impotenza che da sempre legava i ceti più deboli ai gruppi più influenti del paese. Tuttavia questo vincolo, nutrito e prolungato da severe contingenze, resistette fino al secondo dopo guerra. Intanto la mobilità sociale veniva ostacolata da una rete di unioni matrimoniali tra appartenenti allo stesso rango, che ne conservavano l'impermeabilità e affossavano un salutare avvicendamento nelle cariche dell'amministrazione pubblica. Dopo i primi anni cinquanta, la singolare conclusione dell'amministrazione del sindaco Lilliu che, minacciato di morte, abbandonò il villaggio per lungo periodo, e la successiva gestione di Efisio Usai, vennero soppiantate nel 1853 dalla brevissima esperienza di Giuseppe Siotto Pintor. Come testimonia l'Angius, descrivendo l'increscioso atto col quale alcuni pastori del villaggio demolirono i muri con cui «il cav. D. Giuseppe Siotto chiudeva il suo terreno», il nobile professore cagliaritano giunse a Sarroch prima del 1840. Un notevole ampliamento delle proprietà preesistenti si concretò dopo il 1852, quando egli acquistò tre tratti di terreno per un totale di 36,1 ettari al prezzo di 3.300 lire. Tenuto conto dello spessore intellettuale e dello spirito umanitario del personaggio, il suo incarico di primo cittadino, rivestito dal 1853 al 17 marzo 1855 (giorno della sua morte), animò nella popolazione monumentali aspettative, amaramente disilluse dalla prematura scomparsa e, ancora in vita, dalla sua costante assenza dal paese determinata da un tormentato impegno giudiziario e dalle frequenti crisi cardiache che lo affliggevano. Le amministrazioni successive dovettero fare i conti con un quadro disarmante il cui appianamento non era prorogabile. La saltuaria assistenza medica, l'incerta attività di barbieri improvvisati flebotomi e la scarsa manutenzione delle fontane pubbliche, le cui acque in determinate condizioni climatiche divenivano inutilizzabili, complicavano una situazione igienico-sanitaria, per numerosi aspetti già pesantemente compromessa. Le abitazioni del villaggio, escluse alcune eccezioni, versavano in uno stato di conservazione obsoleto; l'aria malsana e la scarsa igiene signoreggiavano all'interno di vani stretti ed umidi destinati ad accogliere un numero eccessivo di individui. Il volto della miseria era oltremisura solcato dalla malnutrizione, i cui effetti divenivano letali per le puerpere e le loro piccole creature. In questo drammatico contesto, la prima spesa che la Giunta si sentì in dovere d'affrontare fu la costruzione del nuovo Palazzo Municipale. Nel 1860, sotto l'amministrazione di Francesco Massidda, si ripresentò, come già due lustri addietro, la necessità di provvedere l'organo amministrativo del paese di una sede capiente e dignitosa. La prima bozza dello stabile fu realizzata dal geometra Agostino Loi e il costo dei lavori ascese al non lieve importo di 17.000 lire. Tuttavia la maggioranza dei membri del Consiglio soffermò la propria attenzione sul fabbricato del signor Antonio Gandolfi di Cagliari, dal 1851 sede della Caserma dei Cavalleggeri. Il caseggiato, posto nel sito più centrale del paese, dominava il gran piazzale della Parrocchia, e risultava attiguo al fabbricato del Monte granatico. Questo edificio antico ma solido era composto da sette ambienti al piano terra e da una sola stanza soprana. Un giardinetto di circa tre are, con vari alberi da frutta, univa lo stabile a quello del Monte granatico e dalla medesima struttura dipendeva un altro chiuso di circa 50 are, con alberi da frutta, mulino e abbeveratoio. Dalla perizia effettuata nel 1855, il valore complessivo dello stabile ammontava a 9.838.90 lire. Il prezzo di 5.000 lire convenuto con il proprietario fu enormemente vantaggioso, considerando che l'ultimo fondo cassa reso dall'esattore di Pula, ossia quello del 1860, ammontava a 8.597 lire. Per la Giunta la parola d'ordine esigeva il conseguimento di nuove soluzioni il meno remunerative possibili ma le più rispondenti ai bisogni pubblici ed ai contenuti delle casse comunali. Il computo metrico ed estimativo delle opere necessarie all'ampliamento della Caserma dei Reali Carabinieri ascese ad un totale di 18.000 lire. Il consiglio deliberò a favore di questa soluzione e i lavori si conclusero nel dicembre del 1866. Non potendo il Comune far fronte ad una spesa così gravosa, dovette chiedere alla "Cassa dei Depositi e Prestiti" di Firenze la concessione di un mutuo di 12.000 lire e dovette assumersi l'onere di restituire la somma mediante la corresponsione dell'interesse del 5%, vincolando i propri bilanci a cominciare dal 1867. Il primo prestito venne concesso nell'aprile del 1865 ed un secondo sempre per lo stesso importo fu elargito nel giugno del 1867. La nuova struttura accolse sia la sede amministrativa del Comune sia la Caserma. Il nuovo imponente edificio mutò la fisionomia del cuore del paese, ma non fu né la soluzione allo stato di necessità né di conforto alla miseria. Qualcosa cominciava a muoversi quando, approfittando della totale siccità del 1866, si operarono con celerità la ristrutturazione della fonte pubblica Funtana Manna, sita nel centro principale di barraccas de baxiu, e la sistemazione del pozzo pubblico detto Funtanedda Selis. Tra i beni posseduti dal Comune risultavano, già negli anni sessanta, cinque fonti pubbliche: Funtana Manna, Funtana de Ziu Felis, la Fonte di Is Suergius, quella di Is Piccionis (fonti rurali d'acqua scelta) e Funtanedda Selis, considerata come l'unica fonte d'acqua non potabile ma indispensabile per tutti gli altri usi. Tra gli anni sessanta e settanta meritano una segnalazione particolare i lavori stradali con l'allargamento e la sistemazione della viabilità interna già esistente. Nonostante le rendite del 1869 fossero grandemente pregiudicate dai danni inflitti da una massiccia invasione di cavallette, fu apportato un progetto di selciamento di alcune strade interne (via di Chiesa; via de Mesu Bidda; via di Caserma; via Lenti) e del piazzale della chiesa di Santa Vittoria, per cui si dovette sostenere l'onerosa spesa di 10.000 lire. Di inestimabile rilevanza fu l'edificazione del nuovo cimitero che incontrò innumerevoli traversie arrecate dall'incompetenza dell'appaltatore. Con atto consolare del 24 aprile del 1869, il Comune raccolse l'offerta privata del muratore Giovanni Pillai, originario di Quartu Sant'Elena. I lavori ebbero inizio nel mese di maggio dello stesso anno e progredirono regolarmente fino alla metà di luglio, quando sospesi a causa della stagione poco propizia, ripresero nell'autunno successivo e furono portati quasi a compimento nella primavera del settanta. La pessima qualità del materiale, unita all'incapacità del coordinatore dei lavori, manifestarono immediatamente i loro effetti, rendendo necessaria la demolizione e la successiva ricostruzione dei muri di cinta che venne affidata a Efisio Maxia di Sarroch, fideiussore del primo impresario. Il Comune poté servirsi della nuova struttura già nell'estate del 1870, abbandonando definitivamente l'area dell'antico cimitero adiacente alla chiesa parrocchiale, dove nel febbraio del 1886 si portò a termine la costruzione del fabbricato ad uso delle scuole elementari municipali che fino a quel momento erano state accolte in alloggi di fortuna o in locali privati. Nello stesso periodo si era provveduto al riattamento delle strade che dalle due borgate conducevano al nuovo cimitero e verso la fine del 1889 furono edificate due camere mortuarie delle quali ormai da tempo si era resa indispensabile la presenza per seri motivi igienico-sanitari. Risale al 1878 il capitolato d'appalto per l'apertura e la sistemazione di una nuova strada comunale della lunghezza di 167 metri che dal piazzale della chiesa parrocchiale conducesse alla via preesistente chiamata de Mesu Bidda, e di una rampa d'accesso al pozzo pubblico lunga 50 metri per un totale di 1.425.03 lire. Intanto, alla percezione del paese che mutava le proprie sembianze, le componenti più agiate della società investirono parte delle loro disponibilità economiche nel risanamento e rimodernamento dei propri domicili, mentre i più disagiati trafugavano macigni dai numerosi monumenti megalitici sparsi sullintero territorio del paese, spogliandoli dell'essenza storica e della loro remota bellezza. In un comunicato del novembre 1892, il Vivanet, Direttore dell'Ufficio Regionale per la conservazione dei monumenti della Sardegna, riferì con veemenza e indignazione sui «vandalici assalti degli ignoranti»; espressione che lascia intendere quanto egli fosse materialmente e spiritualmente distante dall'ignoranza e dal vandalismo, figli della povertà. L'infelice condizione dei sarrochesi capitolò nuovamente quando, approvata la legge abolitiva dei diritti "ademprivili" nell'aprile del 1865, le campagne patirono l'ennesimo sconvolgimento, depotenziate dalla sola e vitale risorsa. I terreni ex ademprivili vennero attribuiti ai Comuni che si trovarono in obbligo di venderli entro il termine legale di tre anni. Indennizzati gli aventi diritto, nel 1869, il Comune diede l'incarico di ripartire il terreno rimanente in tanti lotti, che per la loro estensione e valore potessero venire acquistati anche dai piccoli proprietari di bestiame. A lavoro compiuto risultò che la frazione di terreno dato in proprietà al Comune veniva ripartito in nove lotti di superficie e valore diseguali (Mont'Arbu, 70 ha; Su cu a soli mannu, 40 ha; Sa pala de s'Orcu e de sa Grutta, 96 ha; Majorchinus e Battista Modu, 62 ha; Sa Malesa, 163 ha; Chicu Lenti, 101 ha; Sa pala de conca de cuaddu, 117 ha; Sa virdiera, 153 ha; Sa stiddiosa manna, 214 ha). Curata nel dettaglio in relazione agli interessi dei potenti latifondisti del luogo, la ripartizione dei lotti non raggiunse lo scopo che, con ipocrita benevolenza, sembrava volersi conseguire. I nove lotti messi all'asta dal Comune, tutto potevano apparire eccetto che suddivisi in maniera tale da consentirne l'acquisto da parte di piccoli proprietari terrieri. Basti pensare che l'appezzamento più piccolo misurava 40 ettari, 24 are e 17 cent., per un totale di 1.006.39 lire. Un sistema di affittanze e subaffittanze stringeva il paese che innanzi a sé non scorgeva alcuna prospettiva di miglioramento. Trascorso il biennio d'oro (1872-73) della produzione agricola e industriale del paese, già il Comune nel 1873 presentò le prime avvisaglie della crisi di produzione cerealicola che sconvolse l'intera isola. Nel Comune, dal 1875 si succedettero otto anni consecutivi di fallito raccolto che nel 1883 mutarono in un rovinoso tracollo economico. Già nel 1882 la Commissione Montuaria di Sarroch venne a conoscenza del fatto che il Credito Agricolo Industriale Sardo, cercando in qualche modo di concorrere a lenire i danni della crisi annonaria in corso, poneva a disposizione dei Comuni maggiormente colpiti la somma occorrente per l'acquisto di 300 ettolitri di grano. L'offerta fu accolta repentinamente dalla Commissione, alla quale venne concesso un mutuo di 6.600 lire (da impiegarsi in acquisto di grano), vincolandone la restituzione alla scadenza di un anno con l'interesse del 6% netto ad ogni imposta. Tuttavia le cifre sul fallito raccolto del grano nell'anno agrario 1883-84 furono catastrofiche. Mentre nelle altre regioni della Sardegna il prodotto del grano si calcolava tra i 15 e i 25 ettolitri per ogni ettolitro di prodotto seminato, nel Comune di Sarroch i pochi fortunati ne raccolsero sei, mentre la stragrande maggioranza degli agricoltori riuscì a portarne a casa tre senza contare i piccoli agricoltori che riuscirono appena a raccogliere il seme sparso. Non pochi furono i possidenti che gravati dall'eccessiva sovrimposta (tassa sui loro stabili, la quale raggiungeva il 55% sul fittizio reddito catastale), dall'alienazione del poco bestiame e dei terreni loro rimasti, in quel frangente si annoverarono fra i proletari all'altrui servizio. I più agiati impegnarono i propri poderi contraendo fondi per il pagamento delle imposte comunali oramai smisurate. La causa del fallito raccolto non si attribuì alla siccità lamentata negli anni passati, bensì ad una particolare malattia della pianta, giudicata non dissimile al critogama, per la quale l'intera spiga mostrava «una sostanza rossastra e polverosa, la quale a guisa d'un liquido caustico e corrosivo rendeva la spiga vuota oppure con qualche raro granello rachitico e di proporzione minutissima». Trattavasi probabilmente di cocciniglia, all'epoca poco conosciuta. La Giunta ritenne opportuno avvalersi del disposto nell'art. 12 del Regio decreto 28 agosto 1855 n. 1047, chiedendo al governo la bonifica del fallito raccolto. Dalla perizia sui danni subiti dal Comune scaturì che su 386 ettolitri di seminato furono raccolti 1.128.50 ettolitri di grano per un danno complessivo di 22.385 lire. In questo allarmante stato di recessione agricola, una grande porzione di campi, oramai impoveriti, fu ceduta al pascolo, generando col tempo un lento risveglio di entrambi i settori. Gli anni novanta, pur attestando una generale ripresa nel settore sia agricolo sia industriale, non furono testimoni di sostanziali mutamenti. Il degrado culturale e l'arretratezza economica caratterizzarono il paese ancora per numerosi decenni, fino a quando una classe politica nuova e illuminata si fece carico delle gravi problematiche sociali che per lungo tempo avevano frenato il cammino, fiaccato la volontà, e dissipato il desiderio di una crescita fruttuosa e consapevole.

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